Il Comandante ha Sempre Ragione?

John GattiBy John Gatti15 Giugno 201911 Minuti

Le “verità” che affronto in questo articolo non valgono per tutti i contesti sociali, anzi…

I principi che evoco non sono digeribili da tutti e possono entrare in contrasto con i valori di molte persone. 

La selezione naturale imposta dal mondo marittimo attraversa anche questa fase.

La morale, l’etica, i principi e gli stessi valori – in alcune circostanze – passano in secondo piano rispetto alla necessità di mantenere “indiscutibile” il concetto gerarchico.

La celebre frase “Ed io sono il Capitano del Pilcomayo, e in questo momento a bordo del mio legno comando io dopo Dio” (Emilio Salgari – Il tesoro del Presidente del Paraguay), sintetizza in modo efficace quello che deve essere accettato come un dogma.

Ebbene sì, il Comandante ha sempre ragione! 

Può sembrare una frase divertente, una battuta; in realtà mettere in discussione l’autorità e il potere legati al ruolo del Capo della spedizione, indebolisce l’intero sistema di comando.

L’organizzazione del modus vivendi a bordo di una nave è l’estratto, il condensato, l’applicazione pura di questi concetti.

  • Poche persone che non si conoscono; 
  • di età differenti; 
  • culture politiche diverse;
  • fedi religiose diverse;
  • tradizioni e abitudini diverse; 
  • convivenze coatte lontane dagli affetti e isolate dal resto del mondo, obbligate in uno spazio confinato tra lamiere, cielo e mare.

Se non esistesse una realtà così organizzata da secoli, sono convinto che risulterebbe difficile per chiunque riuscire a credere che funzioni nella sua prassi quotidiana.

La corrente spinge in un’altra direzione…

Quando ero piccolo esistevano diverse “autorità” e tutte esercitavano un potere indiscusso su di me: i genitori, la sorella più grande, gli adulti in generale, il maestro, l’istruttore di ginnastica, ecc. 

La cultura era gerarchica, l’anzianità faceva grado e, in generale, ogni elemento valutativo portava a un determinato livello della scala di comando.

Ma negli anni la “corrente sociologica” ha spinto in modo costante verso un’altra rotta.

Il risultato è la messa in discussione di tutti i ruoli e il conseguente appiattimento dei concetti di autorità e autorevolezza. 

Non esiste la soluzione perfetta. 

Tutti i sistemi politici e giuridici hanno una matrice umana che ne decreta l’imperfezione ma, nelle organizzazioni di qualsiasi livello, via via che il sistema si allontana dal concetto di gerarchia, la situazione diventa ingestibile.

Perché è importante scindere la persona dal ruolo?

A molti non piace l’idea di “gerarchia” e come dargli torto? 

Se riflettiamo bene, pur esprimendo un concetto chiaro e lineare, spesso si è portati ad associare questo termine a ideologie non democratiche. Il nodo della questione è che la gerarchia, quando non è vincolata a un’idea chiara e funzionale delle regole sulle relazioni, scivola inesorabilmente verso rapporti squilibrati.

A questo punto il discorso si allarga e dalle navi si allunga sulle banchine per espandersi sulla terraferma…

Essere a capo di un’organizzazione, ricoprendone la figura verticistica, riconosce una posizione di responsabilità e di autorità, ma non stabilisce un’indiscutibile superiorità in termini di confronto, di ragione universale e, sicuramente, non dà il diritto di accanimento verso i dipendenti o di prepotenza nei confronti dei collaboratori.

Allo stesso modo il collega, o il dipendente, che vivono il rapporto di lavoro a senso unico, pretendendo senza dare, giudicando senza mettersi in discussione obiettivamente e ignorando i punti di vista delle altre persone coinvolte, contribuiscono a generare un clima diffidente e pesante se non, addirittura, di scontro aperto.

E qui abbiamo un altro nodo importante: una mentalità chiusa, concentrata sul proprio essere, presuntuosa ed egoista, porta a rapporti squilibrati.

La gerarchia, anche non formalizzata, è un concetto naturale sempre presente. A volte è dettata dall’anzianità, altre dal carisma, altre ancora da un’evidente superiorità oggettiva in un determinato campo, ma è difficile trovare un contesto dove, anche in modo alterno e provvisorio, non sia presente una qualche forma di competenza organizzata su differenti livelli.

A volte i problemi assumono, ai nostri occhi, dimensioni enormi; ci appaiono irrisolvibili e destinati a cambiare il nostro stato d’animo in modo permanente.

Eppure, se allarghiamo la cornice del problema e la consideriamo in un quadro temporale più ampio, la pressione comincia a calare d’intensità e diventa facile capire come lo scorrere del tempo sia il fattore chiave imprescindibile.

Dove voglio arrivare?

Si sente dire spesso: “la vita è una ruota che gira a scatti”: ogni click è una fase unica e irripetibile, dove per qualche istante hai la possibilità di esprimerti, ma mai di tornare indietro. Ogni click crea, distrugge o consolida una parte di te, contribuendo alla determinazione del tuo “io sono”.

È qui, secondo me, che assume una grande importanza la scala personale dei valori, libera di essere pensata e svincolata dalle convenzioni.

Più siamo consapevoli di ciò che è importante per noi, più diventa facile applicarlo nei click quotidiani.

Detto questo, e collegandolo a quanto scritto prima, osserviamo come, per quasi tutte le persone, buona parte del “tempo” sia occupata e influenzata dalle relazioni sul luogo di lavoro.

Se quello che ho scritto è vero, allora assume un’importanza enorme la considerazione e il rispetto reciproco – capo o subordinato che sia – e il diritto di autonomia decisionale, teso allo sviluppo di un interesse generale, pur in un contesto gerarchico che tenga conto della qualità della vita del singolo.

Incutere paura, usare la leva del terrorismo psicologico, applicare un controllo oppressivo, sono le strategie usate da chi non ha le qualità e le capacità di unire, condividere e guidare verso un piano di crescita collettiva.

Purtroppo succede spesso che chi dirige è ossessionato dalle sue paure e le attribuisce all’altro creando una situazione di oppressione e minaccia. Tutto questo porta a uno stato mentale in cui diventa difficile distinguere i pericoli dalle opportunità e le verità dalle falsità.

È possibile riconoscere questo tipo di persona anche da semplici atteggiamenti, quali, ad esempio, il fatto che tenderà a dare risposte certe su tutti gli argomenti, piuttosto che a fare domande per valutare gli altri punti di vista, ignorando che quello che dice già lo sa e perdendo la possibilità di accedere a un nuovo livello, dove gli potrebbe venire mostrata una parte più profonda, un punto di vista differente.

Una mentalità poco aperta pregiudica la conoscenza, porta a errate valutazioni e a porre giudizi che falsano la realtà.

In definitiva, il concetto gerarchico secolarmente applicato sulle navi di tutto il mondo, soffre certamente di una crescita lenta, forse non al passo con i tempi e certamente migliorabile lavorando sul piano personale.

La figura del leader deve essere capita per arrivare a sostituire, laddove ce ne fosse ancora bisogno, quella del “capo che ha sempre ragione a prescindere”.

Riporto quanto scritto da Kipling che, anche se non perfettamente attinente all’argomento, è indiscutibilmente bello e porta a riflettere.

“Se” di J. R. Kipling (1895)

Se riesci a non perdere la testa quando tutti intorno a te
la perdono e ti mettono sotto accusa.
Se riesci ad avere fiducia in te stesso
quando tutti dubitano di te,
ma a tenere nel giusto conto il loro dubitare.
Se riesci ad aspettare senza stancarti di aspettare
o essendo calunniato a non rispondere con calunnie,
o essendo odiato a non abbandonarti all’odio,
pur non mostrandoti troppo buono,
né parlando troppo da saggio.
Se riesci a sognare senza fare dei sogni i tuoi padroni.
Se riesci a pensare senza fare dei pensieri il tuo fine.
Se riesci ad incontrare il successo e la sconfitta
e trattare questi due impostori allo stesso modo.
Se riesci a sopportare di sentire le verità
che tu hai detto distorte da furfanti
che ne fanno trappole per sciocchi o vedere le cose
per le quali hai dato la vita distrutte e umiliarti
a ricostruirle con i tuoi strumenti oramai logori.
Se riesci a fare un solo fagotto delle tue vittorie
e rischiarle in un solo colpo a testa e croce
e perdere e ricominciare da dove iniziasti senza
mai dire una sola parola su quello che hai perduto.
Se riesci a costringere il tuo cuore, i tuoi nervi,
i tuoi polsi a sorreggerti anche dopo molto tempo
che non te li senti più e a resistere
quando ormai in te non ce più niente
tranne la tua volontà che ripete “resisti!”
Se riesci a parlare con la canaglia
senza perdere la tua onestà
o a passeggiare con i re
senza perdere il senso comune.
Se tanto nemici che amici non possono ferirti
se tutti gli uomini per te contano
ma nessuno troppo.
Se riesci a colmare l’inesorabile minuto
con un momento fatto di sessanta secondi
tua è la terra e tutto ciò che è in essa
e quel che più conta sarai un Uomo, figlio mio.

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